Un giovane su tre, nella città Metropolitana di Milano ha lavorato o lavora attualmente in nero, da sempre la formula più diffusa di impiego ed anche la meno tracciabile per le rilevazioni istituzionali. Una ricerca di Fondazione Adapt e Fondazione Unipolis (Gruppo Unipol) ha intervistato un campione di oltre mille ragazzi con un’età compresa tra i 15 e il 29 anni. Dallo studio è risultato che il 33% dei giovani milanesi lavora in nero, il 19,7% ha un impiego “a chiamata”, il 15,6% è a tempo determinato, il 15,4% gode di una collaborazione con Partita Iva e un ulteriore 4,3% ha un lavoro stagionale. Soltanto il 5,8% possiede un contratto a tempo indeterminato.

Maria Luisa Parmigiani, direttore generale di Fondazione Unipolis, commenta il risultato dell’indagine: «Sarebbe sbagliato connotare solo negativamente quelle esperienze per il fatto che non sono regolari. Restano opportunità preziose che mettono a confronto i ragazzi con il senso di responsabilità rispetto a una prestazione retribuita. E tuttavia bisogna strutturare urgentemente una modalità di formalizzazione, eventualmente nuova, per questi lavoretti, affinché non siano terra di nessuno». È chiaro però che vi siano molteplici problemi legati a questa situazione, come per esempio l’assenza di una continuità contributiva.

Il lavoro in nero è svolto per il 59,2% dei casi nelle ripetizioni o “aiuto compiti” ad altri studenti, con una richiesta che è esplosa con la pandemia, chiaro segnale della necessità di recuperare e consolidare il metodo di studio per gli adolescenti, dopo due anni di didattica a distanza. Il 12,6% degli intervistati si adopera come baby-sitter e il 10% trova impiego in nero come cameriere o nei servizi di catering.

Sono proprio questi giovani non contrattualizzati che la pandemia ha colpito più duramente: il 42,8% ha dovuto interrompere l’attività a causa del lockdown senza trovare delle forme di reddito sostitutive e senza chiaramente godere di alcuna tutela statale.

Un’altra area grigia riguarda i tirocini curriculari ed extra curriculari: queste tipologie di impiego dovrebbero servire a maturare le prime competenze tecniche rispetto al mondo del lavoro, ma solo il 23,6% dei ragazzi pensa di aver imparato qualcosa di utile da queste esperienze. Sono quindi stati interrogati sull’incidenza dei tutor formativi nello sviluppo di competenze e molti hanno lasciato intuire come non fossero stati seguiti dalle persone di competenza durante il periodo di stage: solo uno su tre ritiene che sia stata significativa la funzione del suo tutor.

Durante i lockdown anche ai tirocinanti (uno su due) è stato richiesto di interrompere l’esperienza formativa. Lo scenario cambia parzialmente sul fronte del volontariato. Il 63,4% degli under 30 ha svolto un’attività «generosa e di supporto» accettando di non essere retribuito, magari anche per accumulare crediti a scuola. Più del 50% ritiene che il volontariato sia servito per sviluppare competenze di vario tipo, come la flessibilità e la capacità di pianificare e organizzare. Competenze che nella percezione dei ragazzi appaiono utili per il percorso di studio (43,3 %), per la ricerca di un’occupazione (34%) e per far fronte al rapporto con i futuri capi in ufficio (23%).