La ripresa lavorativa in Italia: carenze sul fronte scuola-lavoro
L’Italia è finalmente un paese in crescita, spinto soprattutto dal settore manifatturiero. Vi sono però delle difficoltà che devono essere affrontate subito, o vi è il rischio che si incappi in una brusca frenata, i cui effetti negativi avrebbero un impatto non solo sul settore produttivo, ma sulla società intera e soprattutto sui giovani. Ad oggi infatti, dalle ultime analisi effettuate dal Centro Studi Confindustria, risulta che circa il 40% delle imprese di meccatronica, energia, grafica e chimica non riesce a trovare nuove risorse da inserire nell’organico aziendale, con un picco del 150% di difficoltà nei settori specifici dell’elettronica-elettrotecnica, turismo, amministrazione e finanza.
Come mai? A detta degli specialisti di Unioncamere e Anpal, sistema informativo Excelsior, il problema impatta soprattutto i settori tecnico-scientifici: l’anno passato si registra una mancanza all’interno delle aziende di 83mila diplomati Its, a fronte di una necessità variabile tra le 886mila e 924mila unità per competenze digitali, Stem e di innovazione 4.0. Risulta dunque chiaro che manchi la materia prima necessaria alla ripresa dell’Italia. Andando inoltre a verificare il numero degli iscritti ad università e Its in questi anni, possiamo affermare con certezza che questa ingente domanda non verrà in alcun modo colmata.
Quali sono dunque gli scogli da superare? Uno fra tutti è sicuramente il distaccamento esistente tra scuola e lavoro. Gli esperti dell’Area Lavoro, welfare e capitale umano di Confindustria hanno analizzato gli ultimi dati, nazionali e internazionali, riguardanti il fronte giovani-formazione-lavoro e i risultati non sono per nulla rassicuranti: sono stati identificati sei fondamentali punti di criticità da risolvere al più presto.
Andiamo dunque ad analizzarli:
- L’abbandono precoce degli studi spicca primo fra tutti e risulta essere particolarmente drammatico a fronte del peggioramento avvenuto dalla pandemia e dalla scarsa qualità della Dad fornita dalle scuole. I dati ci dicono che all’università un giovane su quattro lascia al primo anno di studi, specie nelle facoltà tecnico-scientifiche. Il problema è inoltre intra-territoriale: secondo i calcoli, ogni anno un laureato su tre del Sud Italia abbandona il proprio paese per lavorare al Nord o all’estero. In totale si è registrata una “fuga” che riguarda ben il 31% dei giovani laureati negli atenei meridionali, con il risultato di un impoverimento intellettuale e tecnico del territorio. Secondo uno studio della Svimez, ogni dieci minuti un giovane lascia il Sud Italia per trasferirsi al Nord e nell’ultimo anno si parla di più di 65mila ragazzi sotto i trent’anni.
- Il basso tasso di laureati STEM (Science, Technology, Engineering e Mathematics), soprattutto se si parla di donne. L’Italia ha infatti solo il 24,7% di laureati nelle materie matematiche e ingegneristiche nella fascia tra i 25 e 34 anni e a pesare sembra essere soprattutto la differenza di genere: le giovani laureate STEM in Italia sono solo il 16%, contro il 36,8% di uomini. Per quanto riguarda gli Its le percentuali sono ancora più basse, non considerando che di per sé hanno già pochi iscritti: solo il 27,4% degli studenti è donna. Eppure, secondo i sondaggi condotti da Almalaurea, sono proprio le donne ad avere un potenziale enorme, considerando il fatto che costituiscono oltre la metà della popolazione laureata in Italia e risultano inoltre avere un percorso maggiormente regolare negli studi.
- La percentuale altissima di disoccupazione e di giovani Neet. In Italia, secondo l’Istat, il tasso di disoccupazione dei ragazzi sotto ai 25 anni è tornato circa al 130%, dato che ci colloca direttamente in fondo alla classifica internazionale, in buona compagnia di Spagna e Grecia. Per quanto riguarda i Neet, i numeri sono anche peggiori, sicuramente aggravati dallo scoppio pandemico: 2,1 milioni di giovani che non studiano e non lavorano, quasi 100mila persone in più rispetto al 2019.
- Lo smantellamento del rapporto-scuola lavoro. In Italia, secondo l’Eurostat, le transizioni scuola-lavoro durano circa 10 mesi, tempi davvero lunghi rispetto alla media degli altri Paesi europei, che ne impiegano circa 3 o 4.
- L’apprendistato, soprattutto se si prende in considerazione quello duale. Dai dati raccolti sull’Inapp Inps risulta chiaro come gli apprendistati di primo livello siano meno del 3% della totalità erogata e siano dislocati tutti nel Nord Italia. La situazione peggiora poi per quanto riguarda gli apprendistati di alta formazione e ricerca (terzo livello), che non raggiungono il migliaio. Vi è inoltre un secondo fattore da prendere in considerazione per questo punto, ed è l’inefficacia degli incentivi: Garanzia Giovani, che dovrebbe essere il principale stabilito dallo Stato, risulta essere utilizzato solo dal 5% dei contratti.
- La necessità di una riforma degli istituti tecnici e professionali, in modo da ottimizzarne i legami con il lavoro e i territori, soprattutto per far fronte al problema dell’abbandono e dei fondi mancanti. Basti pensare che nel 2020 sono stati cercati e non trovati 318mila periti e diplomati.
Fino a che punto sarà sostenibile questa situazione?