Il lavoro povero è tutt’ora un grosso problema in Italia e riguarda qualsiasi tipologia lavorativa: i precari, gli autonomi, gli stagionali, i professionisti, gli artisti, gli atipici e anche chi lavora a tempo pieno.

Nel rapporto sulla povertà e l’esclusione sociale pubblicato ad ottobre dalla Caritas, viene sottolineato come quest’anno siano stati registrati un milione di poveri assoluti in più rispetto al 2020, maggiormente concentrati nel nord Italia. Risulta inoltre che il reddito di cittadinanza, sebbene discusso e messo alla dura prova negli scorsi mesi, sia stata una soluzione valida, seppur parziale.

Ma chi sono i poveri assoluti? La povertà estrema o povertà assoluta è la più dura condizione di povertà, nella quale non si dispone, o si dispone con grande difficoltà o intermittenza, delle primarie risorse per il sostentamento umano, come l’acqua, il cibo, il vestiario e l’abitazione. Secondo le ricerche dell’Istat sono in questa condizione 5 milioni di persone, ovvero 1,8 milioni di famiglie, l’8,3% della popolazione residente. Praticamente 1 persona su 12.

La Fondazione di Vittorio, nello studio sul recupero dell’occupazione post pandemia, riporta che la maggior parte di questi lavoratori, hanno in essere dei rapporti di lavoro flessibili: l’80% di essi ha sottoscritto un contratto a termine (oltre 3 milioni di lavoratori) con qualifiche professionali basse e quindi un minor reddito, 2,7 milioni sono part-time involontari o con altri rapporti di lavoro discontinui, con salario annuo inferiore a 10.000 euro. La Fondazione comunica che con la pandemia il salario medio si è ulteriormente abbassato di 726 euro e 5 milioni di dipendenti già avevano una retribuzione annua inferiore ai 10mila euro.

Dai rapporti pubblicati dall’Istat e dall’Inps risulta inoltre che il 21% dei lavoratori percepisce meno di 9 euro lori l’ora per un totale di 2,9 milioni, con una percentuale che aumenta al 26 per quanto riguarda la manodopera femminile e al 38 per quella giovanile.

Come far fronte a questo problema? Il salario minimo potrebbe essere una prima soluzione, mettendo in atto il principio costituzionale della retribuzione equa, proporzionata e sufficiente, allineando l’Italia alla grande maggioranza dei paesi europei. Avrebbe anche l’importante funzione di fungere da regolatore per le norme sull’equo compenso per gli autonomi e i professionisti.

Non è però sufficiente il salario minimo per combattere il fenomeno del lavoro povero e ci sarebbe bisogno di un intervento più incisivo, strategico e integrato su diversi livelli, in quanto si tratta di un fenomeno complesso e sfaccettato a cui concorrono numerose cause, legate per esempio alle condizioni sociali dei nuclei familiari, l’appartenenza ai diversi ceti sociali e la formazione socio-culturale dei cittadini. Occorre dunque prevedere misure dirette, come la riduzione della pressione fiscale e contributiva sul costo del lavoro e l’assegno per i figli (previste in realtà dalla legge di bilancio 2022) e misure indirette atte a favorire la formazione e l’educazione, gli avanzamenti di carriera, la flessibilità oraria e misure di sostegno come l’accesso ai servizi pubblici.