Cos’è (davvero) il welfare aziendale
Ogni organizzazione che si rispetti è attenta al welfare aziendale. Il termine non ha una definizione univoca, ma in linea di massima potrebbe essere definito come l’insieme delle iniziative prese dal datore di lavoro per garantire il benessere dei propri dipendenti. In effetti tale definizione è molto ampia, e lascia grande spazio ad interpretazioni. La più comune riguarda la garanzia di incentivi economici: le risorse dell’azienda hanno a disposizione buoni pasto, buoni benzina, rimborso per l’acquisto dei libri scolastici e polizze assicurative che coprono le spese sanitarie.
Tutti tentativi ammirevoli, certo, ma il welfare aziendale è un concetto che va aldilà dei semplici aiuti monetari. Spesso, quando si parla di questo argomento, ci si lancia in esercizi contabili, e il piano di welfare viene tirato in ballo perchè conviene convertire i premi di produzione: in questo modo si pagano meno tasse e pesano meno sul bilancio. Un atteggiamento del genere denota l‘incapacità degli imprenditori di comprendere la potenza di questo strumento.
E così si parla di welfare ma si fa economia: è come avere una Ferrari e non scalare mai la marcia, che equivale a riempirsi la bocca di belle parole senza comprenderne il senso. Si ha l’impressione che molte imprese, tramite il welfare, compensino ciò che lo Stato non riesce ad offrire ai cittadini, e cioè più incentivi e meno tasse, tutto qui.
La verità è che non c’è welfare senza people care. Alla base del tema c’è il benessere dei dipendenti in quanto persone, dentro e fuori l’azienda. Avere un buon welfare aziendale, che sia in grado di estendere i benefici dei dipendenti nella vita privata, significa servirsi del più potente metodo di engagement. Infatti, è proprio dove i lavoratori si sentono bene che si crea un terreno fertile, pronto a dare frutti di cui tutti potranno beneficiare nel lungo periodo.
C’è di più. Il welfare in quanto benessere non è un concetto limitato alle grandi aziende. Esso è estendibile anche alle Pmi, poiché non richiede investimenti eccessivi. Piuttosto ad essere necessario è un cambio radicale del pensiero culturale, che deve coinvolgere non solo i datori di lavoro ma anche i dipendenti.
Nonostante la diffusa ignoranza sul tema, il concetto di welfare ha attecchito in Italia molti anni fa. Il primo ad avere in mente il concetto di un’azienda felice fu Olivetti, creatore del primo best place to work made in Italy. Il concetto di famiglia lavorativa olivettiano, purtroppo, oggi non ha applicazioni concrete, ma rimane un modello efficace di gestione, da cui trarre ispirazione per generare benessere.
Ma il benessere è un concetto del tutto personale. In questo senso il welfare, per poter essere tale, dev’essere attento alle esigenze dei singoli. Allora viene da chiedersi se non sia più semplice raggiungere l’ideale modello di welfare all’interno delle realtà più piccole, dove ci si conosce tutti ed è più semplice soddisfare le singole esigenze. Ma bisognerebbe fare uno sforzo anche all’interno delle grandi aziende: intercettare e soddisfare il bisogno del singolo si traduce in “sto pensando a te”, qualcosa che va ben l’oltre la garanzia dei buoni pasto.
Viene spontaneo chiedersi se in un momento difficile come quello attuale sia opportuno parlare di welfare. Ma è proprio perché siamo in difficoltà che il welfare dev’essere una priorità. Dare qualcosa alle persone, gratificarle, farle sentire al sicuro, vuol dire renderle efficienti ed efficaci sul lavoro. E, lo ripetiamo, non si tratta di un aiuto economico: vale il concetto di cura dell’altro, che trasforma i luoghi di lavoro in posti di cui innamorarsi.