Coronavirus e comunicazione: il modello Singapore
Qual è stato l’atteggiamento degli italiani durante la Fase 1? Tirando le somme, non tutti hanno rispettato le regole. Durante le festività i media hanno diffuso immagini di gente in fuga, alla ricerca disperata di una boccata d’aria. Per non parlare della Fase 2: gli assembramenti sui Navigli milanesi, ad esempio, hanno irritato chi continua a fare grandi sforzi per porre fine a quest’incubo.
Eppure altrove i cittadini hanno reagito in modo differente: Singapore è il modello a cui avremmo dovuto guardare fin dall’inizio. Non tanto per la sanità, quanto per la comunicazione tra istituzioni e cittadini. Ma andiamo per ordine. Non appena è stata diffusa la notizia della circolazione di un nuovo virus, anche a Singapore è scoppiato il panico: memori della Sars del 2003, i cittadini hanno assalito i supermercati, come a prepararsi ad un’emergenza alimentare inesistente.
D’altro canto Singapore è una realtà complessa dal punto di vista sociodemografico. L’alta densità di popolazione si combina con presenza di numerose etnie, a cui si aggiungono i migranti ammassati nei dormitori, e i turisti, che arrivano in quello che è il più grande scalo aeroportuale del sud-est asiatico.
Ma è bastato poco per ristabilire la calma. Le autorità si sono subito messe a lavoro per delineare un piano d’intervento efficace. La strategia per fronteggiare l’emergenza a Singapore è fondata su tre principali linee d’intervento: potenziamento del sistema sanitario, rigorose misure di distanziamento sociale, uso dell’app Trace Togheter per mappare i contagi.
Il piano, al momento in vigore fino a giugno, è stato rivisto in base all’evoluzione della pandemia. Il professor Jeremy Lim dell’University of Singapore, ospite del Corona Virus Speaker, organizzato dal Global Resilient Cities Network, ha ammesso che per fronteggiare il problema “serve creatività, con la consapevolezza che questa è una nuova guerra, che richiede soluzioni in tempo reale, attraverso l’esperienza, anche degli altri”.
A guardare il sistema sanitario, non sembra ci siano proposte innovative rispetto agli altri Paesi. Cosa, quindi, ha funzionato? Il segreto è nella strategia di comunicazione, fondata sulla chiarezza, la trasparenza e la semplicità. Ne è un esempio il video messaggio con cui il ministro Lien Hsien Loong ha invitato tutti a “restare uniti nell’emergenza e soprattutto a proseguire sereni le nostre vite”.
Singapore non è immune alle fake news. Ma per contrastarle le istituzioni hanno migliorato la comunicazioni, fornite in modo capillare via Whatsapp. Per non parlare del de-bunking, affidato ai fumetti del Professor Fisher, capaci di spiegare in modo semplice e divertente i comportamenti da seguire per prevenire il contagio o gestire l’infezione.
Le autorità hanno controllato ogni messaggio attraverso dei”social nudge”, avendo cura di coinvolgere attivamente i destinatari in comportamenti virtuosi, invece di minacciare con severe punizioni chi trasgredisce le regole. I media, poi, hanno fatto la loro parte, attraverso titoli quasi sempre dai toni misurati.
Se il modello adottato a Singapore è ammirevole, è anche vero che è inapplicabile nei Paesi occidentali. Sia per le differenze economiche e sociodemografiche, sia per l’assenza di un sistema che privilegia il rispetto delle regole e l’interesse collettivo.
Inoltre, il successo di questa strategia è dovuto alla fiducia che i cittadini ripongono nelle istituzioni. Questo si ricollega a una delle regole d’oro del reputation manager: la credibilità di un’organizzazione si costruisce nel tempo attraverso comportamenti da valorizzare con una buona comunicazione. Chi riesce ad agire e comunicare correttamente diventa un punto di riferimento per l’intera organizzazione, aggregando intorno a sé consenso e partecipazione.
Fonte: b-story.eu